Viaggio-studio in Terra Santa 2013. Una testimonianza

La possente presenza dell’assenza

 

Ciò che occorre è un uomo,
non occorre la saggezza,
ciò che occorre è un uomo in ispirito e verità;
non un paese, non le cose,
ciò che occorre è un uomo,
un passo sicuro, e tanto salda
la mano che porge che tutti
possano afferrarla, e camminare
liberi, e salvarsi.

 

Carlo Betocchi

 

Osservando le colonne all’ingresso del Santo Sepolcro a Gerusalemme, ricoperte di firme, graffiti e croci antiche di uomini, guerrieri, monaci e semplici fedeli mi è sorta una domanda: cosa ha spinto per millenni i pellegrini e i credenti di tutto il mondo a giungere in Terra Santa affrontando mille pericoli? Forse cercare un senso alla vita? Un incoraggiamento che dia forza al nostro andare? Oppure si va  per scorgere un segno mirabile che rafforzi la nostra fede poiché «se non vedete segni e prodigi voi non credete» (Gv 4-48).

Per quanto mi riguarda non saprei di preciso: essendo un insegnante di religione ho deciso di partecipare al viaggio in Terra Santa organizzato dall’Istituto di Scienze religiose “A. Marvelli” col fine di vedere di persona i luoghi in cui nostro Signore ha vissuto ed agito in modo da poter trasmettere con entusiasmo questa esperienza ai miei alunni. Ma non è tutto qui: infatti anch’io ho bisogno di segni; anch’io, come Tommaso, ho bisogno di mettere le mani nelle piaghe del risorto per poter esclamare con gioia: «Signore mio, e mio Dio!» (Gv 20, 28).

Questo atteggiamento non è raro in questa epoca in cui il sensazionalismo è necessario per essere qualcuno, e dove sono il campione del pallone, l’eroe del cinema o il tronista di turno e non un semplice pane spezzato al tramonto del sole a «far ardere i nostri cuori» (Lc 24,30-32). Dove sono solo l’eccezione e il successo a far scalpore, mentre l’uomo ordinario che vive del suo lavoro è fonte di noia, in un mondo dove spesso rischia di risuonare il grido dell’Ecclesiaste: «Quel che è stato sarà,  e ciò che è stato fatto si rifarà. Niente di nuovo avviene sotto il sole» (Qo 1,9).

Che ho trovato dunque di sbalorditivo seguendo i passi di Gesù dalla Galilea alla Giudea? Dal lago di Tiberiade al deserto di Giuda fino ad arrivare a Gerusalemme? Prima un giaciglio vuoto a Betlemme ed un sepolcro anch’esso sgombro a Gerusalemme, un’assenza in cui porre la mia preghiera, mentre il guardiano ortodosso del Sepolcro intimava ad ogni secondo: «fare svelti italiani!», mettendo duramente alla prova la pazienza.

Paradossalmente ho trovato la presenza di Dio più possente nel silenzio del deserto, mentre la gazzella baluginava e il falco planava all’alba, o sulle sponde sciabordanti  e schiumose del lago di Tiberiade, che non nelle grandi chiese adornate d’oro, di mosaici e di lampade. Paradossalmente ho trovato Dio nel canto dei frati, quando chiudevo gli occhi mentre la preghiera dei francescani si univa a quello dei monaci armeni, integrandosi in una melodia che sembrava trascendere questo mondo. Paradossalmente ho trovato Dio il primo giorno, mentre assieme ad altri fedeli entravamo con le nostre candele nella Basilica dell’annunciazione: «L’entrata del paradiso deve essere così», pensavo mentre tutta la folla fluiva lentamente nel portone intonando preghiere e canti.

Ma se ci pensiamo bene questo non è affatto strano per noi cristiani; il sensazionalismo e i grandi prodigi vanno bene per il faraone, per i suoi maghi e per i potenti del mondo, ma non sono la peculiarità di un Dio che ha deciso di farsi bimbo, affondando con tutto se stesso nella nostra miseria, nel ventre di una mamma e nelle grotte buie delle nostre vite e dei nostri peccati.

Forse il più grande miracolo è già sotto i nostri occhi ogni giorno; forse, come diceva don Guido nell’omelia alla cappella Templare al Santo Sepolcro durante l’ultima messa, il potere della risurrezione si trova già nella Galilea di ciascuno di noi. Forse è questa la più grande notizia del Vangelo e della Pasqua: «Non temete voi! So che cercate Gesù crocifisso; non è qui: è risorto come aveva detto. Orsù, osservate il luogo dove giaceva. E ora andate e dite ai suoi discepoli che egli è risorto dai morti e  vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco ve l’ho detto» (Mt 28,5-7).  Il Vivente non desidera farsi adorare come un Baal, come un superuomo dei fumetti, ma ritorna nei luoghi in cui già aveva operato con un corpo nuovo, rinnovato continuando il Regno dei cieli sulla terra. È la dinamica del segno, che più che agire nella realtà esterna, oggettiva, opera nel nostro cuore invitandoci a “cambiare vita”, orientare cioè lo sguardo verso la Verità e le cose che davvero hanno importanza, come fa l’uomo della parabola che, trovato il tesoro nel campo, va e vende tutto quello che ha per comprare il campo stesso (Lc 13,44).

È questo il miracolo della Terra Santa, un miracolo che necessitiamo come acqua viva nel deserto in questo periodo di nichilismo che porta alla disperazione, dove tutto ciò che dura e che dà senso alla nostra vita sembra scomparso nel grande mare del relativismo e
dell’edonismo.

Può darsi che il più grande segno della Terra Santa sia l’invito a non guardare al cielo ma alla terra, a vedere il miracolo nelle cose di tutti i giorni, che spesso sottovalutiamo o diamo per scontate: al figlio che magari ci tiene svegli la notte, all’alunno che rovina la nostra lezione “perfetta” o alla nonna che sgrana il rosario tramandandoci il dono della fede con gli occhi di Gesù risorto.

Magari, come forse approverebbe don Osvaldo, è questa l’illuminazione che il grande Charles de Foucauld ha avuto in Terra Santa, mentre la sua conversione lo portava a spendere e sacrificare la propria vita per gli ultimi del deserto: «Noi siamo tutti figli dell’Altissimo. Tutti. Il più povero, il più ripugnante, un neonato, un vecchio decrepito, l’essere umano meno intelligente, il più abietto, un idiota, un pazzo, un peccatore, il più grande peccatore, il più ignorante, l’ultimo degli uomini, quello che ripugna moralmente e fisicamente è un figlio di Dio, un figlio dell’Altissimo».

Alex Celli